“Oltre le Sbarre: il diritto alla Dignità, al Lavoro, al Futuro”

“Oltre le Sbarre: il diritto alla Dignità, al Lavoro, al Futuro”

Riflessioni sul carcere alla luce dell’articolo 27 della Costituzione
L’Italia ha scelto, fin dalla sua Costituzione, una via chiara e profonda per quanto riguarda la giustizia penale: la pena non è vendetta! Ce lo ricorda l’articolo 27 della Costituzione, che parla con parole semplici ma potentissime: la responsabilità penale è personale, nessuno è colpevole fino a condanna definitiva, le pene devono rispettare la dignità umana e puntare alla rieducazione, e la pena di morte non è ammessa.
Ma osservando le condizioni attuali del sistema penitenziario, è difficile non interrogarsi su quanto di questi principi sia davvero rispettato nella realtà quotidiana delle carceri italiane.

 

Un sistema in crisi
Al 30 settembre 2025, in Italia erano presenti 63.198 detenuti a fronte di un tasso medio di sovraffollamento del 135%, con picchi che superano il 150% in regioni come il Lazio. Le donne rappresentano solo il 4,3%, ma la presenza straniera è significativa: oltre il 31% della popolazione detenuta complessiva.
Le carceri, oggi, sono sempre più spesso luoghi di marginalizzazione, dove il rischio di cronicizzare il disagio sociale è altissimo. In un contesto così congestionato garantire diritti, percorsi educativi e opportunità di reinserimento, diventa un’impresa complessa.

 

Il lavoro in carcere: diritto o privilegio?
Secondo l’ultimo Rapporto Antigone (Associazione per i Diritti e le Garanzie nel Sistema Penale), nel 2024 solo il 28,4% dei detenuti svolgeva attività lavorative. Una percentuale già bassa e in calo rispetto al 2023 (32,6%). Ancora più esiguo il numero di coloro che lavorano per datori esterni: appena il 4,8%.
In molti casi il lavoro in carcere è gestito direttamente dall’amministrazione penitenziaria: attività di pulizia, cucina, manutenzione interna. Solo l’1% dei detenuti lavora per imprese private. Questo dato racconta di un’opportunità di reinserimento reale ancora troppo lontana, che rischia di rimanere un’eccezione più che la norma.
Eppure, l’articolo 27 ci dice che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Ma come può esserci rieducazione senza strumenti concreti? Senza formazione, senza competenze, senza possibilità di misurarsi con il mondo esterno?

 

Formazione professionale: semi di futuro
La formazione è il primo passo per costruire una vita diversa. Nel 2024, solo il 10% dei detenuti è stato coinvolto in corsi di formazione professionale. Un dato che resta stabile ma comunque molto limitato rispetto al fabbisogno reale.
Tuttavia, la formazione è una chiave potente per aprire la porta del reinserimento. Offre non solo competenze tecniche, ma anche consapevolezza, fiducia, autostima. È un atto di giustizia sociale oltre che di lungimiranza: chi esce dal carcere con strumenti concreti per ricominciare ha meno probabilità di ricadere nel reato.
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Le misure alternative: una strada che funziona
C’è però un trend che merita attenzione: le misure alternative alla detenzione stanno crescendo in modo significativo. Al 15 marzo 2025, 97.009 persone erano in carico agli Uffici di Esecuzione Penale Esterna (UEPE) con misure alternative a fronte di 63.198 detenuti. Un sorpasso storico, che segna un possibile cambio di rotta.
Chi accede a queste misure può spesso usufruire di percorsi di inclusione sociale, lavorativa e formativa, in contesti meno afflittivi, più aperti, più umani. Le aziende, i territori, i servizi pubblici e privati possono diventare partner di questo processo di reintegrazione.
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Una responsabilità collettiva
Se vogliamo che il carcere sia davvero uno strumento di giustizia e non una macchina che riproduce esclusione, dobbiamo investire nella connessione tra lavoro, formazione e misure alternative. Dobbiamo credere che ogni persona ha il diritto di cambiare, di ricostruire, di rientrare nella società a testa alta.
Come Consorzio Abele, crediamo che la dignità passi anche e soprattutto dal lavoro. E che offrire un’opportunità a chi sta scontando una pena sia un atto di giustizia, di fiducia, di costruzione di un futuro più giusto per tutti.
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Cosa possiamo fare, insieme
• Le istituzioni devono garantire accesso reale e diffuso alla formazione professionale e a percorsi di lavoro dentro e fuori dal carcere.
• Le imprese possono diventare protagoniste del cambiamento, assumendo persone detenute o ex detenute e partecipando a progetti di inserimento.
• I cittadini e le cittadine possono scegliere di informarsi e di sostenere nelle pratiche quotidiane realtà che lavorano ogni giorno per il reinserimento sociale.
Perché una pena che rieduca non è solo una questione giuridica.
È una scelta etica, culturale, politica.
È una scommessa sulla possibilità di ritornare a vivere.
Anche oltre le sbarre.
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